Giacomo
Fossati ci racconta la sua
esperienza professionale, introducendoci a questo mestiere. Fiorentino, da
quindici anni è export manager per un’azienda toscana che vende i propri vini
su scala mondiale.
Intervista a cura di Pasquale Canu
Giacomo, puoi raccontarci come hai
iniziato la professione di commerciale estero?
Dopo aver
studiato lingue ed aver ottenuto la Licenza Linguistica, mi ero iscritto alla
Facoltà di Giurisprudenza di Firenze, perché, oltre alle lingue, ho da sempre
avuto una grande passione per il Diritto. Dopo 2/3 anni e diversi esami già
sostenuti, ho iniziato a lavorare part-time per una libreria e poi per un
magazzino di libri in modo da essere più autonomo dalla famiglia.
Successivamente mi è stata fatta la proposta di entrare in un’azienda vinicola in
Toscana, inizialmente per una sostituzione di maternità, e poi per rimanervi
stabilmente a tempo indeterminato. L’azienda mi richiese di dover trattare con
la clientela estera, il che mi fece riemergere la passione per le lingue che,
negli anni ultimi anni, avevo gioco-forza un po’ trascurato. Consisteva tuttavia in un lavoro a tempo pieno, che
prevedeva anche diverse trasferte all’estero. Di conseguenza mi trovavo di
fronte ad un bivio: continuare gli studi in Giurisprudenza oppure dedicarmi a
questa nuova attività. Ebbene, ho optato per la seconda anche se, tuttora, ho
molti rimorsi per non aver terminato gli studi universitari, visto che avevo già
sostenuto circa la metà degli esami con un’ottima media.
Dopo i primi
mesi di ambientamento mi sono trovato a dover affrontare tutta una serie di
situazioni completamente nuove per me, dal customer care alla partecipazione a
fiere ed eventi, presentazioni e degustazioni professionali, e tanto altro
ancora. Tuttavia, mi sono reso subito conto che questa era la giusta strada per
me e oggi sono quasi 15 anni che svolgo
questa attività.
Quali sono secondo te i requisiti e le
competenze che un commerciale estero deve possedere?
Oltre alla
conoscenza delle lingue, che a mio parere non è di per sé sufficiente, occorre
anche una certa predisposizione a trattare con le persone, non solo nell’ottica
di dover “vendere”, poiché oltre al rapporto strettamente professionale, laddove
possibile, occorre instaurare rapporti umani, stando comunque ben attenti a non
superare determinati limiti. Il fatto di entrare in confidenza con i propri partners commerciali, buyers in primis, ha infatti degli aspetti positivi che sicuramente
si riveleranno di aiuto nelle successive trattative commerciali. Tuttavia, in
certi frangenti bisogna stare attenti a mantenere determinate distanze in modo
da non compromettere il buon esito delle trattative. Potrebbe ad esempio
accadere che i superiori del tuo diretto interlocutore, non apprezzino la confidenza
creata nel tempo.
Inoltre, a
mio avviso, occorre una certa dinamicità e propensione alle molteplici trasferte
che questo tipo di lavoro comporta. In questo senso, chi non ha ancora una
famiglia è agevolato, visto che, a seconda di certi periodi dell’anno, diversi
giorni al mese devono essere spesi all’estero, lontano da casa.
Specialmente
in questo periodo storico, per un commerciale estero è anche importante saper
scegliere nella maniera ottimale gli eventi a cui partecipare (fiere, workshop
ecc.), dato che i budget a disposizione sono sempre più ridotti e quindi tale
scelta può risultare determinante per i risultati che ci si prefigge di
raggiungere.
Quali sono i criteri che occorrerebbe
seguire per scegliere i mercati obiettivo e quale approccio è consigliato avere
quando si inizia ad interagire con essi?
In generale,
si cerca sempre di puntare sui mercati che storicamente offrono le migliori
performance dal punto di vista dell’export. Nel nostro settore USA, Canada,
Germania, Inghilterra rimangono i mercati di sbocco principali. Al tempo stesso
si punta sui mercati emergenti, ad esempio sui cosiddetti BRIC, ossia Brasile,
Russia, India e Cina, che, essendo meno saturi, offrono maggiori possibilità
rispetto ai mercati tradizionali e possono permettere un più efficace posizionamento
del marchio.
Naturalmente,
nella scelta dei mercati obiettivo, bisogna anche tener presente la tipologia
di prodotto che si intende vendere con particolare riguardo alla fascia di
prezzo. In questo senso, sono molto interessanti i dati sull’export che le
associazioni di categoria pubblicano ogni trimestre e che mostrano, tra le
altre cose, il trend ed il prezzo medio di vendita al litro, che permette di
capire se un determinato mercato è pronto a recepire il prodotto o meno, o
magari permette di capire su quali prodotti puntare su un certo mercato e quali
altri prodotti di un’altra fascia di prezzo su altri mercati.
Infine ci
sono tutta una serie di circostanza soggettive che ti portano ad operare con un
mercato piuttosto che un altro. Questo logicamente varia da azienda ad azienda.
Noi, ad esempio, avevamo un ristorante a Parigi e, grazie a ciò, siamo riusciti
a penetrare il mercato francese molto efficacemente.
Per quanto
riguarda l’approccio, sarebbe sempre bene avere uno o più referenti in loco,
come ad esempio un agente, che possa dare un quadro d’insieme del mercato in
questione. Questo non è del tutto possibile, soprattutto per aziende
medie-piccole, e quindi è necessario farsi una cultura in proprio, per ciò che concerne l’aspetto delle regolamentazioni
da osservare in un determinato Paese, le procedure doganali, i dazi, i tipi di
documentazioni richiesti e tutto ciò che riguarda gli aspetti
amministrativo-burocratici legati alle esportazioni. In questo senso, esistono
delle pubblicazioni di settore che riassumono le caratteristiche dei diversi
mercati e che possono essere molto utili, soprattutto all’inizio.
Quali sono i maggiori vantaggi e le
maggiori difficoltà che si hanno nell’intraprendere questa professione?
Ovviamente si
ha la possibilità di viaggiare parecchio, il che, di per se, è molto
gratificante perché ti permette di conoscere, seppure marginalmente, culture
diverse e di interagire con centinaia e centinaia di persone provenienti dai più
diversi angoli della Terra. Indubbiamente, questa attività porta via molto tempo
alla vita familiare e sociale, e di conseguenza a lungo andare può
rappresentare una difficoltà non indifferente, specialmente per chi, come me,
ha già dei figli. Non è raro che si debba rinunciare a impegni familiari o
sociali già presi da tempo a causa di trasferte improvvise a cui difficilmente si
può rinunciare. In questo senso, devi godere di una forte “solidarietà” da
parte del tuo partner, altrimenti diventa tutto più complicato.
Nelle relazioni commerciali con
l’estero ci si confronta con usi, costumi e culture differenti, dove la
conoscenza e il rispetto delle stesse deve essere fondamentale affinché una
trattativa non venga compromessa. Qual è la tua opinione in merito, sulla base
della tua esperienza?
Decisamente
sì. Il rispetto di determinati usi e costumi è fondamentale per il buon esito
di alcune trattative, specialmente in alcuni Paesi meno “occidentalizzati”. In
questo senso, occorre spesso fare buon viso a cattivo gioco, nel senso che
magari certe usanze posso sembrare inusuali e, in alcuni casi, addirittura
ridicole, ma per non urtare la sensibilità del tuo interlocutore e non
compromettere il risultato finale ci si presta volentieri e si sta al “gioco”.
Secondo te, le imprese italiane sono
ben attrezzate per operare all’estero e di cosa avrebbero maggior necessità per
migliorare ulteriormente?
Purtroppo
l’Italia non è molto attrezzata per operare all’estero in modo efficace ed
economicamente sostenibile. Il problema principale è l’eccessiva frammentarietà
del nostro sistema. Si tende infatti a dividerci piuttosto che a fare squadra
e, così facendo, i costi si moltiplicano. In Francia, ad esempio, hanno un ente
governativo chiamato Sopexa che funziona benissimo e permette a tutte le
aziende francesi un processo di internazionalizzazione incentrato sull’identità
culturale a costi sostenibili anche dalle piccole aziende. Il corrispettivo
della Sopexa in Italia è l’Istituto
Nazionale per il Commercio Estero (ICE), il quale non è invece riuscito a
mio parere a raggiungere questi risultati, basti pensare che per la maggior
parte delle prestazioni che esso fornisce - e non parlo della partecipazione
alle fiere - sono a pagamento. Ad esempio, se si ha in mente di penetrare un
nuovo mercato e si richiede all’ICE un elenco di importatori del settore d’interesse
che operano in un determinato Paese, ti viene risposto che al ricevimento del
pagamento di una determinata somma (ex. € 150,00) potrai ricevere una lista di
circa 15 nominativi. Questo esempio spiega tutto. Purtroppo, l’ICE è uno dei
tanti “carrozzoni” di Stato che, aldilà delle buone intenzioni di facciata, di
fatto non supporta concretamente ed efficacemente le imprese italiane nel
processo di internazionalizzazione. Molto meglio, in certi casi, la
partecipazione a fiere ed eventi all’estero attraverso un
consorzio/associazione di categoria che permette di accedere a tali
manifestazioni a costi più ragionevoli, magari usufruendo spesso dei contributi
comunitari.
Quali sono le prospettive del settore
in cui lavori, in rapporto alla concorrenza estera?
Dai dati
statistici, si evince che il nostro settore, quello del vino, è forse quello
che ha resistito meglio in questi duri anni di crisi economica, grazie
soprattutto all’export che ha permesso alle aziende italiane di sopravvivere.
Certo, ormai da diversi anni si deve fare i conti con la concorrenza dei Paesi
produttori di vini del cosiddetto “New World”
(Sudafrica, Cile, Argentina, Australia ecc.) che hanno rapidamente scalato
posizioni, sottraendo ai tradizionali Paesi esportatori (Francia, Italia ecc.)
ingenti quote di mercato. Tuttavia, questo trend si sta lentamente sgonfiando e
quindi c’è molta positività ed ottimismo intorno al vino italiano all’estero.
Naturalmente, occorre puntare ancora di più sul made in Italy e soprattutto
sulla qualità, visto che a livello di concorrenza sui mercati paghiamo caro,
così come altri settori, l’alto costo della produzione dovuto all’eccessiva
tassazione del lavoro e alla mancanza di materie prime, oltre che alla
frammentarietà di cui ho già accennato. Gli imprenditori italiani sono riusciti a
tamponare tutto ciò grazie all’intraprendenza ed all’inventiva che da sempre li
contraddistingue.
Per chiudere, a chi consiglieresti
questa professione e a chi invece consiglieresti di rifletterci maggiormente
prima d’intraprenderla?
Come già
detto, occorre una forte propensione alle relazioni personali ed agli
spostamenti il che comporta un certo sacrificio dal punto di vista della vita
familiare e sociale. Pertanto, prima di intraprendere questa professione è
fondamentale soppesare il tutto per capire se questa può essere la strada
giusta o meno.
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