8 febbraio 2014

Commerciale estero. Una professione che supera ogni confine.

Giacomo Fossati ci racconta la sua esperienza professionale, introducendoci a questo mestiere. Fiorentino, da quindici anni è export manager per un’azienda toscana che vende i propri vini su scala mondiale. 

Intervista a cura di Pasquale Canu

Giacomo, puoi raccontarci come hai iniziato la professione di commerciale estero?

Dopo aver studiato lingue ed aver ottenuto la Licenza Linguistica, mi ero iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza di Firenze, perché, oltre alle lingue, ho da sempre avuto una grande passione per il Diritto. Dopo 2/3 anni e diversi esami già sostenuti, ho iniziato a lavorare part-time per una libreria e poi per un magazzino di libri in modo da essere più autonomo dalla famiglia. Successivamente mi è stata fatta la proposta di entrare in un’azienda vinicola in Toscana, inizialmente per una sostituzione di maternità, e poi per rimanervi stabilmente a tempo indeterminato. L’azienda mi richiese di dover trattare con la clientela estera, il che mi fece riemergere la passione per le lingue che, negli anni ultimi anni, avevo gioco-forza un po’ trascurato. Consisteva  tuttavia in un lavoro a tempo pieno, che prevedeva anche diverse trasferte all’estero. Di conseguenza mi trovavo di fronte ad un bivio: continuare gli studi in Giurisprudenza oppure dedicarmi a questa nuova attività. Ebbene, ho optato per la seconda anche se, tuttora, ho molti rimorsi per non aver terminato gli studi universitari, visto che avevo già sostenuto circa la metà degli esami con un’ottima media.
Dopo i primi mesi di ambientamento mi sono trovato a dover affrontare tutta una serie di situazioni completamente nuove per me, dal customer care alla partecipazione a fiere ed eventi, presentazioni e degustazioni professionali, e tanto altro ancora. Tuttavia, mi sono reso subito conto che questa era la giusta strada per me e oggi sono quasi 15 anni che svolgo questa attività.


Quali sono secondo te i requisiti e le competenze che un commerciale estero deve possedere?

Oltre alla conoscenza delle lingue, che a mio parere non è di per sé sufficiente, occorre anche una certa predisposizione a trattare con le persone, non solo nell’ottica di dover “vendere”, poiché oltre al rapporto strettamente professionale, laddove possibile, occorre instaurare rapporti umani, stando comunque ben attenti a non superare determinati limiti. Il fatto di entrare in confidenza con i propri partners commerciali, buyers in primis, ha infatti degli aspetti positivi che sicuramente si riveleranno di aiuto nelle successive trattative commerciali. Tuttavia, in certi frangenti bisogna stare attenti a mantenere determinate distanze in modo da non compromettere il buon esito delle trattative. Potrebbe ad esempio accadere che i superiori del tuo diretto interlocutore, non apprezzino la confidenza creata nel tempo.
Inoltre, a mio avviso, occorre una certa dinamicità e propensione alle molteplici trasferte che questo tipo di lavoro comporta. In questo senso, chi non ha ancora una famiglia è agevolato, visto che, a seconda di certi periodi dell’anno, diversi giorni al mese devono essere spesi all’estero, lontano da casa.
Specialmente in questo periodo storico, per un commerciale estero è anche importante saper scegliere nella maniera ottimale gli eventi a cui partecipare (fiere, workshop ecc.), dato che i budget a disposizione sono sempre più ridotti e quindi tale scelta può risultare determinante per i risultati che ci si prefigge di raggiungere.


Quali sono i criteri che occorrerebbe seguire per scegliere i mercati obiettivo e quale approccio è consigliato avere quando si inizia ad interagire con essi?

In generale, si cerca sempre di puntare sui mercati che storicamente offrono le migliori performance dal punto di vista dell’export. Nel nostro settore USA, Canada, Germania, Inghilterra rimangono i mercati di sbocco principali. Al tempo stesso si punta sui mercati emergenti, ad esempio sui cosiddetti BRIC, ossia Brasile, Russia, India e Cina, che, essendo meno saturi, offrono maggiori possibilità rispetto ai mercati tradizionali e possono permettere un più efficace posizionamento del marchio.
Naturalmente, nella scelta dei mercati obiettivo, bisogna anche tener presente la tipologia di prodotto che si intende vendere con particolare riguardo alla fascia di prezzo. In questo senso, sono molto interessanti i dati sull’export che le associazioni di categoria pubblicano ogni trimestre e che mostrano, tra le altre cose, il trend ed il prezzo medio di vendita al litro, che permette di capire se un determinato mercato è pronto a recepire il prodotto o meno, o magari permette di capire su quali prodotti puntare su un certo mercato e quali altri prodotti di un’altra fascia di prezzo su altri mercati.
Infine ci sono tutta una serie di circostanza soggettive che ti portano ad operare con un mercato piuttosto che un altro. Questo logicamente varia da azienda ad azienda. Noi, ad esempio, avevamo un ristorante a Parigi e, grazie a ciò, siamo riusciti a penetrare il mercato francese molto efficacemente.
Per quanto riguarda l’approccio, sarebbe sempre bene avere uno o più referenti in loco, come ad esempio un agente, che possa dare un quadro d’insieme del mercato in questione. Questo non è del tutto possibile, soprattutto per aziende medie-piccole, e quindi è necessario farsi una cultura in proprio, per ciò che concerne l’aspetto delle regolamentazioni da osservare in un determinato Paese, le procedure doganali, i dazi, i tipi di documentazioni richiesti e tutto ciò che riguarda gli aspetti amministrativo-burocratici legati alle esportazioni. In questo senso, esistono delle pubblicazioni di settore che riassumono le caratteristiche dei diversi mercati e che possono essere molto utili, soprattutto all’inizio.

Quali sono i maggiori vantaggi e le maggiori difficoltà che si hanno nell’intraprendere questa professione?

Ovviamente si ha la possibilità di viaggiare parecchio, il che, di per se, è molto gratificante perché ti permette di conoscere, seppure marginalmente, culture diverse e di interagire con centinaia e centinaia di persone provenienti dai più diversi angoli della Terra. Indubbiamente, questa attività porta via molto tempo alla vita familiare e sociale, e di conseguenza a lungo andare può rappresentare una difficoltà non indifferente, specialmente per chi, come me, ha già dei figli. Non è raro che si debba rinunciare a impegni familiari o sociali già presi da tempo a causa di trasferte improvvise a cui difficilmente si può rinunciare. In questo senso, devi godere di una forte “solidarietà” da parte del tuo partner, altrimenti diventa tutto più complicato.

Nelle relazioni commerciali con l’estero ci si confronta con usi, costumi e culture differenti, dove la conoscenza e il rispetto delle stesse deve essere fondamentale affinché una trattativa non venga compromessa. Qual è la tua opinione in merito, sulla base della tua esperienza?

Decisamente sì. Il rispetto di determinati usi e costumi è fondamentale per il buon esito di alcune trattative, specialmente in alcuni Paesi meno “occidentalizzati”. In questo senso, occorre spesso fare buon viso a cattivo gioco, nel senso che magari certe usanze posso sembrare inusuali e, in alcuni casi, addirittura ridicole, ma per non urtare la sensibilità del tuo interlocutore e non compromettere il risultato finale ci si presta volentieri e si sta al “gioco”.

Secondo te, le imprese italiane sono ben attrezzate per operare all’estero e di cosa avrebbero maggior necessità per migliorare ulteriormente?

Purtroppo l’Italia non è molto attrezzata per operare all’estero in modo efficace ed economicamente sostenibile. Il problema principale è l’eccessiva frammentarietà del nostro sistema. Si tende infatti a dividerci piuttosto che a fare squadra e, così facendo, i costi si moltiplicano. In Francia, ad esempio, hanno un ente governativo chiamato Sopexa che funziona benissimo e permette a tutte le aziende francesi un processo di internazionalizzazione incentrato sull’identità culturale a costi sostenibili anche dalle piccole aziende. Il corrispettivo della Sopexa in Italia è l’Istituto Nazionale per il Commercio Estero (ICE), il quale non è invece riuscito a mio parere a raggiungere questi risultati, basti pensare che per la maggior parte delle prestazioni che esso fornisce - e non parlo della partecipazione alle fiere - sono a pagamento. Ad esempio, se si ha in mente di penetrare un nuovo mercato e si richiede all’ICE un elenco di importatori del settore d’interesse che operano in un determinato Paese, ti viene risposto che al ricevimento del pagamento di una determinata somma (ex. € 150,00) potrai ricevere una lista di circa 15 nominativi. Questo esempio spiega tutto. Purtroppo, l’ICE è uno dei tanti “carrozzoni” di Stato che, aldilà delle buone intenzioni di facciata, di fatto non supporta concretamente ed efficacemente le imprese italiane nel processo di internazionalizzazione. Molto meglio, in certi casi, la partecipazione a fiere ed eventi all’estero attraverso un consorzio/associazione di categoria che permette di accedere a tali manifestazioni a costi più ragionevoli, magari usufruendo spesso dei contributi comunitari.

Quali sono le prospettive del settore in cui lavori, in rapporto alla concorrenza estera?

Dai dati statistici, si evince che il nostro settore, quello del vino, è forse quello che ha resistito meglio in questi duri anni di crisi economica, grazie soprattutto all’export che ha permesso alle aziende italiane di sopravvivere. Certo, ormai da diversi anni si deve fare i conti con la concorrenza dei Paesi produttori di vini del cosiddetto “New World” (Sudafrica, Cile, Argentina, Australia ecc.) che hanno rapidamente scalato posizioni, sottraendo ai tradizionali Paesi esportatori (Francia, Italia ecc.) ingenti quote di mercato. Tuttavia, questo trend si sta lentamente sgonfiando e quindi c’è molta positività ed ottimismo intorno al vino italiano all’estero. Naturalmente, occorre puntare ancora di più sul made in Italy e soprattutto sulla qualità, visto che a livello di concorrenza sui mercati paghiamo caro, così come altri settori, l’alto costo della produzione dovuto all’eccessiva tassazione del lavoro e alla mancanza di materie prime, oltre che alla frammentarietà di cui ho già accennato. Gli imprenditori italiani sono riusciti a tamponare tutto ciò grazie all’intraprendenza ed all’inventiva che da sempre li contraddistingue.

Per chiudere, a chi consiglieresti questa professione e a chi invece consiglieresti di rifletterci maggiormente prima d’intraprenderla?

Come già detto, occorre una forte propensione alle relazioni personali ed agli spostamenti il che comporta un certo sacrificio dal punto di vista della vita familiare e sociale. Pertanto, prima di intraprendere questa professione è fondamentale soppesare il tutto per capire se questa può essere la strada giusta o meno.

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